Per oltre vent’anni il CPM – COST PER MILLE IMPRESSIONI è stato il riferimento universale dell’advertising digitale.
Nato negli anni Novanta come adattamento online delle logiche già utilizzate in stampa e televisione, ha permesso di dare un prezzo all’attenzione e di standardizzare le pianificazioni, contribuendo alla crescita esponenziale del mercato digitale. La sua forza è stata la semplicità: ogni mille volte che un annuncio viene mostrato, l’inserzionista paga un prezzo prestabilito.
Oggi, però, il contesto è cambiato: audience frammentate, formati sempre più diversificati, attenzione come risorsa scarsa.
In questo scenario è emersa la necessità di nuove metriche più centrate sulle persone. Questa metrica viene indicata in modi diversi: CPUM (COST PER MILLE UTENTI), CPM REACH nei manuali Nielsen o ancora CPM-U (COST PER MILLE USERS) nei sistemi di currency come l’AGF in Germania. Noi scegliamo di adottare la forma CPM-U, perché è quella più diffusa e standardizzata a livello internazionale. Il passaggio dal CPM al CPM-U segna uno shift importante: non si guarda più soltanto al numero di impression servite, ma al costo per raggiungere 1.000 utenti in generale. Un cambio di prospettiva che rende più chiaro e trasparente il valore delle campagne per brand ed editori.
PERCHÉ IL CPM È LIMITATO
Il CPM misura quante volte un contenuto viene mostrato, ma non tiene conto di ciò che oggi rappresenta la vera moneta nel mondo dei media: l’attenzione. Il mercato si sta infatti spostando sempre più verso KPI legati all’ATTENTIVENESS, cioè la capacità di catturare e mantenere l’attenzione delle persone. In questo scenario, limitarsi a contare quante volte un annuncio è stato servito non restituisce il valore reale di una campagna.
Nel tempo, questo approccio ha mostrato la sua debolezza soprattutto nei contesti in cui conta la QUALITÀ DELLA RELAZIONE con il pubblico: progetti di sponsorship, branded content, formati audio o video immersivi.
DAL CONTEGGIO DELLE IMPRESSION ALLA CENTRALITÀ DELL’UTENTE
Il CPM-U nasce per colmare questo vuoto. Non misura più soltanto quante volte un annuncio viene erogato, ma quante persone in generale vengono raggiunte da un contenuto. Non è un calcolo sugli “utenti unici”, ma un cambio di prospettiva: il punto di riferimento non è più la macchina che eroga l’ad, ma l’utente che ne viene esposto. Questo spostamento semantico e operativo apre a una valutazione più realistica del valore di una campagna, perché permette di associare un costo a ciò che realmente interessa a brand ed editori: LE PERSONE.
AUDIO E SPONSORSHIP: IL TERRENO IDEALE
In diversi mercati internazionali – dagli Stati Uniti al Nord Europa – questo tipo di approccio sta emergendo soprattutto nei progetti di sponsorship e branded content. Nei podcast, negli spoken content e nelle sezioni native dei quotidiani digitali, il valore per l’inserzionista non è il numero di impression ma il COSTO PER ACCEDERE A UN CLUSTER DI UTENTI, anche se non necessariamente unici. Qui il CPM-U si rivela lo strumento ideale per valorizzare le community.
DOVE VIENE USATO OGGI
Il CPM-U non è un’invenzione isolata, ma una metrica che già trova applicazione in diversi contesti. Nel mercato televisivo e video, ad esempio, la Germania attraverso l’AGF utilizza il CPM-U come currency ufficiale, calcolando il costo per 1.000 persone uniche nel target. Nel settore radiofonico e dell’audio lineare, Nielsen adotta la formula del “CPM reach” come proxy per valutare il costo per mille ascoltatori. Anche i social media hanno introdotto metriche analoghe: piattaforme come Meta parlano chiaramente di “costo per 1.000 account raggiunti” nei loro strumenti di reportistica.
Se ci spostiamo sul terreno dell’audio digitale e dei podcast, l’adozione è ancora più evidente. Network come Spotify, Acast, Wondery o Podigee già prezzano le loro inventory e le sponsorship sulla base del costo per mille ascoltatori o download validati, seguendo gli standard IAB. Lo stesso avviene per gli spoken content, dove la logica è quella di valorizzare non le impression, ma gli utenti effettivamente raggiunti e coinvolti. Anche il branded content e le newsletter si muovono nella stessa direzione: sempre più creator e publisher propongono pacchetti calcolati sul costo per 1.000 iscritti o lettori raggiunti. Infine, nel mondo programmatic e nei data vendor, si trovano offerte basate sul CPM-U per utenti target marcati, una modalità distinta rispetto al tradizionale CPM per erogazioni.
Questi esempi dimostrano che il CPM-U è già una realtà consolidata in più settori, pur non essendo ancora formalizzato come standard globale dall’IAB.
CPM-U COME PONTE VERSO LE ATTENTION-BASED METRICS
Negli ultimi anni, inserzionisti e agenzie hanno iniziato a richiedere metriche orientate all’attenzione: tempo di esposizione, engagement, ricordo del messaggio. Il CPM-U non misura attenzione, ma sposta il baricentro sulla persona. È un ponte utile per arrivare a metriche più sofisticate, mantenendo la chiarezza e la semplicità di un parametro di costo immediatamente comprensibile.
PERCHÉ SERVE UN CAMBIO DI PARADIGMA
Il rischio del mercato attuale è quello di gonfiare numeri senza reale valore: impression che non producono attenzione, metriche che confondono più che chiarire. In questo scenario, il CPM-U offre una via d’uscita: non elimina il CPM, ma lo affianca, introducendo un parametro user-first che permette di raccontare con maggiore chiarezza il valore di un’audience.
LA VISIONE DI AUDIOBOOST
Audioboost crede che il CPM-U sia la metrica giusta per una fase di mercato in cui l’audio digitale e l’AI stanno ridefinendo il rapporto tra editori, utenti e brand. Con soluzioni proprietarie come SpeakUp-Article™, Storycast e AI Audio Lab, siamo in grado di misurare il reale impatto sui nostri utenti e di trasformarlo in valore per inserzionisti ed editori.
L’audio è per natura un medium personale, capace di creare un legame diretto con chi ascolta.
Parlare di impression in questo contesto è riduttivo: ciò che conta è il numero di utenti che scelgono di dedicare tempo e attenzione a un contenuto. Con il CPM-U, questo valore diventa tangibile e misurabile.
CONCLUSIONI
Il CPM ha segnato un’epoca e resta un parametro importante per leggere il mercato dell’advertising digitale. Ma oggi i brand, le agenzie e gli editori hanno bisogno di andare oltre i numeri gonfiati dalle impression per concentrarsi sulle persone. È in questo scenario che il CPM-U – COST PER MILLE UTENTI emerge come metrica capace di restituire valore reale: semplice da comprendere, trasparente da comunicare, utile per costruire modelli di business sostenibili.Per Audioboost questa non è solo un’opportunità tecnica, ma un vero cambio di paradigma. L’audio digitale, reso ancora più potente dall’AI, è il terreno ideale per affermare il CPM-U come nuova moneta di scambio tra editori e inserzionisti. Non conta più quante volte un contenuto è stato servito, ma quante persone hanno scelto di ascoltarlo e dedicargli attenzione. È qui che si gioca il futuro dell’advertising: meno centrato sulle impression, più orientato a creare relazioni autentiche con le community.